martedì 28 luglio 2009

G2 tra USA e Cina

Nel giorno dell’inizio del grande diaologo strategico a Washington tra Cina e Stati uniti, Pechino ha fatto sapere che per la prima volta il presidente cinese Hu Jintao ha contattato direttamente il presidente di Taiwan Ma Ying-jiu.

La notizia sembra laterale ed irrilevante per gli occhi occidentali, secondo cui la questione dell’isola di Taiwan è un’oscuro ghirigoro della politica orientale. In realtà questo è un preciso messaggio interno alla Cina e agli americani più addentro alle esoteriche cose cinesi.

Taiwan è stato per decenni, da Mao a Deng, il grande ostacolo strategico al riavvicinamento politico e milutare tra Pechino e Washington. Senza la barriera di Taiwan, i rapporti sino americani non hanno ostacoli o problemi significativi, da parte di Pechino.

Inoltre, i nazionalisti cinesi che hanno separato Taiwan dal continente nel 1949 resistendo ai tentativi di invasione comunista, sono stati per 70 anni il vero grande bastione dell’America in Asia. Lo erano ben prima e ben più profondamente del Giappone. Infine, l’anno prossimo il prodotto interno lordo della Cina dovrebbe superare quello giapponese, segnando anche simbolicamente la fine di un secolo di primato giapponese in Asia.

Ma Ying-jiu è poi stato educato in America ed aveva un permesso di residenza permanente americana, cosa a cui ha dovuto rinunciare per correre da presidente di Taiwan.

Il miglioramento netto dei rapporti tra Pechino e Tapei significa che per la Cina allora non ci sono più difficoltà sostanziali verso Washington. Il resto, le questioni dei diritti umani, gli affari religiosi, la differenza del sistema politico, le frizioni commerciali o economiche tutte queste sono cose su cui Pechino è disposto a larghe concessioni e passi avanti.

Tutto purché gli Usa non si adoperino per destabilizzare quella che Pechino vede come l’integrità territoriale cinese. Ciò significa niente armi sofisticate a Taiwan, ma anche niente supporto politico alla causa del Dalai Lama in Tibet o a quella degli indipendentisti, più o meno integralisti musulmani, nel Xinjiang.

Pechino è molto ottimista sull’esito dei colloqui, e vede per la prima volta affacciarsi la prospettiva concreta di stabire una vera partnership strategica con gli Stati uniti.
Qui ci sono ormai una serie di terreni politici in cui la Cina ha già cominciato a collaborare con gli Usa. Oltre alla Corea del Nord c’è l’Iran, su cui, dietro le quinte, Pechino sta facendo pressioni.

Un’altra è la possibilità di intervenire con truppe in Afghanistan. Alcuni generali cinesi sono particolarmente interessati a questo che nei fatti sarebbe la partecipazione a una guerra, la prima da 30 anni, dai tempi della breve e disastrosa guerra combattuta in Vietnam.

Questi generali spiegano che un esercito ha bisogno di esperienze di combattimento, senza di esse, un esercito non sa più combattere. Inoltre, il sangue e il sudore versato insieme ai soldati americani in Afghanistan potrebbe più di ogni altra cosa cementare un rapporto profondo tra Usa e Cina.

Di questo però si parlerà nelle camere più riservate. Davanti alla stampa si affronteranno invece i tanti argomenti su cui rimangono diversità di vedute. In primo luogo rimane la questione del dollaro.

L’America è allarmata dalle voci che la Cina voglia abbandonare il biglietto verde, come moneta internazionale, Pechino teme che prima o poi Washington svaluti pesantemente la sua moneta per ridurre il debito proprio con la Cina.

In questo colloqui la Cina entra fortissima dei suoi ormai 2.123 miliardi di dollari di riserve e di una economia che nel 2009 crescerà intorno all’8%, mentre altri rallenteranno di 4 o 5 punti. La differenza di sviluppo sarà impressionante e proverà che la via di uscita dalla crisi economica per gli Usa sarà agganciarsi di più alla Cina, e non all’ansimante Europa.

Su questi argomenti, ci vorranno rassicurazioni da entrambi, ma quale che sia il risultato esso si imporrà di fatto agli europei che con il loro euro, senza una testa politica, diventano una moneta politicamente marginale.

L’emergere di questo grande asse transPacifico dovrebbe diventare così il vero elemento importante, decisivo che dovrebbe mobilitare governi e folle in Europa, per capire come rispondere cosa fare. Succederà? Probabilmente no e per mille motivi tutti europei.

Anche perché sarà più facile vedere che ieri il cielo di Pechino era azzurro come non lo era ormai da molti anni. Ciò perché molte fabbriche intorno alla capitale sono chiuse. Per la crisi, dicono i critici, perché sono state trasferite altrove o sono diventate più efficienti, moderne, dice Pechino.

Via | lastampa.it

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